Ci possono essere due modi, entrambi legittimi, per gustarsi un libro di poesie:
1) il primo in cui si ricerca di rivivere emozionalmente le medesime esperienze dell’autore;
2) il secondo in cui si cerca di percorrere un cammino conoscitivo, prendendo come guida e accompagnamento la poesia.
Io, personalmente, preferisco il secondo perché reputo che ognuno ha il suo cammino e il suo modo personale di percepire le cose. La poesia allora diventa una sorta di mappa che aiuta a orientarsi in quel vasto territorio che è la vita. Inoltre, questo secondo approccio approda a individuare un “motivo dominante”, un “tema principale” che percorre, esplicitamente o implicitamente, tutte le liriche, concepite in questo modo come variazioni sul tema (l’analogia con l’espressione musicale è d’obbligo in questo caso!). Determinare un “motivo dominante” non significa proporre una spiegazione definitiva, bensì partecipare a un processo infinito che porta ad ampliare lo spazio di risonanza del testo e ad arricchirlo di senso.
Veniamo al punto: per me, il “motivo dominante” del libro di poesie di Mango è la ricerca della “possibilità del nuovo”. Mi spiego meglio: da una parte c’è il “malamente mondo”, costituito dagli automatismi della routine quotidiana, da un tipo di comunicazione appiattita nella volgarità mediatica dei talk-show e dei reality, in cui le parole non servono più nemmeno al loro scopo più elementare che è quello di trasmettere informazioni utili (ma servono solo per l’ostentazione di sé: non è questa la vera pornografia di massa che le tv oggi ci gettano addosso?). In questa situazione è impossibile ascoltare qualcosa di veramente nuovo: tutto è già prefissato, ci sono dei cliché predeterminati, gli eventi accadono in modo meccanico e inconsapevole. Il massimo di invenzione che si può pretendere dalla nostra “vita in diretta” è la variazione della sequenza combinatoria dei cliché…
Dall’altra parte, cioè nella poesia del Nostro, c’è la ricerca di qualcosa di veramente nuovo: “nuovo” non nel senso di realtà effimera che emerge e svanisce (che è invece il senso che la nostra società mediatica dà al termine “nuovo” e alla sua manifestazione più fuggevole, le news), ma nel senso di una realtà che suscita stupore, che fa innamorare ogni giorno per una ragione diversa della vita, che non sa arrendersi all’abitudine, che, infine, vede in questo “nuovo stuporoso” la cifra, la traccia di quella dimensione trascendente che può liberare dagli automatismi della quotidianità e delle convenzioni.
E’ allora quel nuovo che vede il mondo come uno scrigno su cui si vuole poggiare la realtà per noi preziosa e da cui si spicca il volo a seminare futuro (nei solchi nuovi per mille nuovi raccolti!); è il nuovo delle gocce solitarie in penombra e silenti, costituito dal sogno e dall’amore che aprono a un altrove “dove le parti non esistono/ e anche le rose hanno un nome”; è il nuovo vissuto in tutti i registri dell’amore, quello della prossimità e dell’abbandono (Richiamo foresto d’invito carnale, Fioriscine gioia) e quello della lontananza e dell’assenza (Il digiuno mio di te, I tuoi denti son greggi di pecore). Sono solo esempi, ripresi dalle prime poesie del libro, in cui si può declinare il “motivo dominante” della ricerca della possibilità del nuovo. Il nuovo è ciò che deve portare dei “corto circuiti” negli automatismi del nostro pensare: corto circuito che si origina già nel titolo “Nel malamente mondo…”. Perché un avverbio invece che un aggettivo? Ma proprio per sottolineare che non si tratta di una qualità accidentale aggiunta, bensì di uno stato dell’essere che, se non prestiamo attenzione, ci assorbirà nel suo labirinto.
Un particolare aspetto mi preme di aggiungere: in molte poesie del nostro vi sono riferimenti a elementi della tradizione religiosa. Tanto per restare alle prime poesie, troviamo: come antiche madonne/ nel grembo di chiese assopite (…) rigonfie di troppi peccati/ e ginocchi lisciati, arrossati dal legno di panche/ ormai spoglie di lacrime e incensi; mio Tibet ritrovato (Tibet come luogo dove si custodisce la dimensione spirituale più limpida dell’umanità); praticare l’ostia del tuo altare. Gli esempi potrebbero continuare con versi di altre poesie (“come costato di Cristo a Maria” e “sospetto manipolo d’orfane chiese,/ altare dischiuso a sacrario di ossa” in Di te cambierei; i rosari delle vecchie affusolate in La vecchia e la loggia fino a “seno in trasparenza,/ a farne Sindone sul mio lenzuolo” dell’ultima poesia).
I riferimenti, come dicevo, sono nella maggior parte alla nostra tradizione cristiana: è necessario perché questo è il nostro retroterra e in questo noi ci riconosciamo. Ma in ciò non c’è nessun intento confessionale (siamo lontano dagli Inni sacri del Manzoni!): non si vuole però predicare la scomparsa dei contenuti religiosi, ma una loro nuova e diversa configurazione. Non sono citazioni blasfeme o “a-religiose”, ma solamente “diversamente religiose”. Vale a dire che la poesia di Mango attesta non tanto il dileguarsi delle tematiche religiose, quanto piuttosto il loro radicalizzarsi in forme di ricerca di senso e di apertura alla trascendenza in ambiti non più tradizionalmente confessionali. Seguendo le vie intramondane dell’esistenza (l’amore, il rapporto con la natura, i propri sogni, lo spazio umano del corpo e della propria interiorità) in cui ancora sembra nascondersi una scintilla di luce, offre la possibilità ancora di invocare un senso ultimo e radicale. In questo modo, anche la poesia vale come la preghiera!
Non me ne vogliate se sono stato troppo lungo e troppo complicato!
Buona vita a tutti
d.Max
1) il primo in cui si ricerca di rivivere emozionalmente le medesime esperienze dell’autore;
2) il secondo in cui si cerca di percorrere un cammino conoscitivo, prendendo come guida e accompagnamento la poesia.
Io, personalmente, preferisco il secondo perché reputo che ognuno ha il suo cammino e il suo modo personale di percepire le cose. La poesia allora diventa una sorta di mappa che aiuta a orientarsi in quel vasto territorio che è la vita. Inoltre, questo secondo approccio approda a individuare un “motivo dominante”, un “tema principale” che percorre, esplicitamente o implicitamente, tutte le liriche, concepite in questo modo come variazioni sul tema (l’analogia con l’espressione musicale è d’obbligo in questo caso!). Determinare un “motivo dominante” non significa proporre una spiegazione definitiva, bensì partecipare a un processo infinito che porta ad ampliare lo spazio di risonanza del testo e ad arricchirlo di senso.
Veniamo al punto: per me, il “motivo dominante” del libro di poesie di Mango è la ricerca della “possibilità del nuovo”. Mi spiego meglio: da una parte c’è il “malamente mondo”, costituito dagli automatismi della routine quotidiana, da un tipo di comunicazione appiattita nella volgarità mediatica dei talk-show e dei reality, in cui le parole non servono più nemmeno al loro scopo più elementare che è quello di trasmettere informazioni utili (ma servono solo per l’ostentazione di sé: non è questa la vera pornografia di massa che le tv oggi ci gettano addosso?). In questa situazione è impossibile ascoltare qualcosa di veramente nuovo: tutto è già prefissato, ci sono dei cliché predeterminati, gli eventi accadono in modo meccanico e inconsapevole. Il massimo di invenzione che si può pretendere dalla nostra “vita in diretta” è la variazione della sequenza combinatoria dei cliché…
Dall’altra parte, cioè nella poesia del Nostro, c’è la ricerca di qualcosa di veramente nuovo: “nuovo” non nel senso di realtà effimera che emerge e svanisce (che è invece il senso che la nostra società mediatica dà al termine “nuovo” e alla sua manifestazione più fuggevole, le news), ma nel senso di una realtà che suscita stupore, che fa innamorare ogni giorno per una ragione diversa della vita, che non sa arrendersi all’abitudine, che, infine, vede in questo “nuovo stuporoso” la cifra, la traccia di quella dimensione trascendente che può liberare dagli automatismi della quotidianità e delle convenzioni.
E’ allora quel nuovo che vede il mondo come uno scrigno su cui si vuole poggiare la realtà per noi preziosa e da cui si spicca il volo a seminare futuro (nei solchi nuovi per mille nuovi raccolti!); è il nuovo delle gocce solitarie in penombra e silenti, costituito dal sogno e dall’amore che aprono a un altrove “dove le parti non esistono/ e anche le rose hanno un nome”; è il nuovo vissuto in tutti i registri dell’amore, quello della prossimità e dell’abbandono (Richiamo foresto d’invito carnale, Fioriscine gioia) e quello della lontananza e dell’assenza (Il digiuno mio di te, I tuoi denti son greggi di pecore). Sono solo esempi, ripresi dalle prime poesie del libro, in cui si può declinare il “motivo dominante” della ricerca della possibilità del nuovo. Il nuovo è ciò che deve portare dei “corto circuiti” negli automatismi del nostro pensare: corto circuito che si origina già nel titolo “Nel malamente mondo…”. Perché un avverbio invece che un aggettivo? Ma proprio per sottolineare che non si tratta di una qualità accidentale aggiunta, bensì di uno stato dell’essere che, se non prestiamo attenzione, ci assorbirà nel suo labirinto.
Un particolare aspetto mi preme di aggiungere: in molte poesie del nostro vi sono riferimenti a elementi della tradizione religiosa. Tanto per restare alle prime poesie, troviamo: come antiche madonne/ nel grembo di chiese assopite (…) rigonfie di troppi peccati/ e ginocchi lisciati, arrossati dal legno di panche/ ormai spoglie di lacrime e incensi; mio Tibet ritrovato (Tibet come luogo dove si custodisce la dimensione spirituale più limpida dell’umanità); praticare l’ostia del tuo altare. Gli esempi potrebbero continuare con versi di altre poesie (“come costato di Cristo a Maria” e “sospetto manipolo d’orfane chiese,/ altare dischiuso a sacrario di ossa” in Di te cambierei; i rosari delle vecchie affusolate in La vecchia e la loggia fino a “seno in trasparenza,/ a farne Sindone sul mio lenzuolo” dell’ultima poesia).
I riferimenti, come dicevo, sono nella maggior parte alla nostra tradizione cristiana: è necessario perché questo è il nostro retroterra e in questo noi ci riconosciamo. Ma in ciò non c’è nessun intento confessionale (siamo lontano dagli Inni sacri del Manzoni!): non si vuole però predicare la scomparsa dei contenuti religiosi, ma una loro nuova e diversa configurazione. Non sono citazioni blasfeme o “a-religiose”, ma solamente “diversamente religiose”. Vale a dire che la poesia di Mango attesta non tanto il dileguarsi delle tematiche religiose, quanto piuttosto il loro radicalizzarsi in forme di ricerca di senso e di apertura alla trascendenza in ambiti non più tradizionalmente confessionali. Seguendo le vie intramondane dell’esistenza (l’amore, il rapporto con la natura, i propri sogni, lo spazio umano del corpo e della propria interiorità) in cui ancora sembra nascondersi una scintilla di luce, offre la possibilità ancora di invocare un senso ultimo e radicale. In questo modo, anche la poesia vale come la preghiera!
Non me ne vogliate se sono stato troppo lungo e troppo complicato!
Buona vita a tutti
d.Max