L’amore è invisibile. Il suono di questa frase mi ricorda quello delle campane del Naviglio quando, intorno all’ora del vespro, catturano il sole nascondendolo alla sera. In quel momento i pensieri s’addensano e battagliano contro il silenzio. Un grande suono diventa un faro acceso sui quartieri più intimi della città e della percezione, della nostra capacità sensoriale, del potere intuitivo, del volume di emozione che sappiamo catturare attraverso l’onda del pensiero che ci asseconda.
L’amore è invisibile quando definisce ogni zona del cuore capace di protezione, quando è voglioso di sconfinate incertezze, quando sa come mortificarne il dolore nascosto che ne fuoriesce e cancellarne la scia luminosa che potrebbe raschiare il cielo come gesso sulla lavagna.
L’amore è invisibile quando si raccoglie in un’espressione vocale, felice di dare spazio alle parole di una canzone, quando esse diventano piantine di riso perfettamente distanti l’una dall’altra nel rispetto di quello spazio capace, ogni volta, di conquistarla la canzone, come fa un maschio con una femmina o una femmina col proprio maschio e di penetrare l’amplesso geometrico- viscerale tra il cuore e la testa dell’autore, area, questa, valicabile solo con la forza di una nuova passione, altrettanto fascinosa e intuitiva da permetterti di volare falco d’amore su quella nuova coscienza impalpabile quanto odorosa di nuovi respiri da catturare.
Un nuovo disco, però, non è un corteggiamento, ma un sondaggio del cuore sul cuore, uno stratagemma scomposto affinché ci sia data la possibilità di capire.
Non è un azzardo ma terra moderna su cui ogni semina può diventare obiettivo da distinguere e raffinare quasi fosse uno zucchero o un diamante da accarezzare per cercarne la luce più interna.
Un disco nuovo è un design che nasce perché il tempo lo concede.
Non è il caso a manovrare le cose, ma l’architettura dell’emozione, quella che muove dall’abitabilità necessaria ad una canzone per raccontare un pezzo di vita, come se fosse un’impalcatura su cui il corpo può muoversi, nel tentativo di rigenerare l’anima, intanto che, aggrappata al vento, s’asciuga.
Lavorando a un disco di cover l’architettura dell’emozione diventa il moltiplicatore dei sensi. Traversando il grado intuitivo tutto si trasforma in nuovo linguaggio, quello che ci permette di ristrutturare gli ambienti di ogni canzone analizzandone le distanze più intime per poi convogliarle verso uno stato sintonico- viscerale capace di reiterarne lo stato d’animo.
La possibilità di scegliere tra centinaia di forti emozioni già vissute da colleghi in altri momenti, apre il petto, ritemprando i colori fin dalle cantine del sogno, cercando altro profumo da regalare ai nuovi fiori del sentimento.
Rimodellare, partendo dalla propria visuale, una canzone, significa vivere un’emozione forte e violenta; significa ricomporre un mosaico armonico-emozionale utilizzando il seme della vocalità e del sound, rompendo ogni schematico pregiudizio musicale, dando spazio alla propria libertà mentale nell’affrontare il suono con una visceralità sorridente e positiva, propositiva di un attimo di vita, mai vissuto in precedenza. Quella che nasce e cresce dallo scambio di momenti simbiotici fondamentali con musicisti importanti come Carlo De Bei e Rocco Petruzzi, anime sempre nuove, specularmente preziose nel confronto continuo col mio trentennale bisogno di scoprire, volare, riempire, svuotare, anticipare, analizzare, amare, cantare, suonare, etc..etc.. il mondo musicale per quello che è, vale a dire, un mondo difficile e complesso, capace di universi non proprio facili da spiegare, ma possibili da vivere con umiltà parallela a una lacrima, quella lacrima incapace di annegare in una segreta malinconia, ma vogliosa di essere fiore del mondo.
Ricreare duttilità ad un linguaggio significa amplificare lo sguardo che è proprio dell’anima e allora lo sguardo è un volo a planare ed ecco che, il brano che stai analizzando ti penetra e diventa un viaggio sottopelle, disilluso e cocente di suono mai claustrofobico, ma intimistico rigenerativo.
Per una voce bisognosa di canto credo che la rilettura di un brano possa rappresentare il vertice di una possibilità, questo è quanto è capitato a me nel lavorare così intensamente su “L’amore è invisibile”. Una gioia immensa si è impossessata di me, durante il lungo periodo di lavorazione, regalandomi momenti di serenità delicate, dolcezze non trascurabili ed anche malinconiche circumnavigazioni del cuore unite a virili accortezze dell’anima, cosciente a volte, ma anche sorpresa e non accorta in altre.
E allora l’incontro con “Scrivimi”diventa quasi un obbligatorio punto di sensibilità che vive d’amore. Un accertato sistema che si raccoglie nell’intimo del proprio viaggio, dove l’abbandonarsi poetico, su un BPM diverso, regala alla vocalità un nuovo volo fatto di ali semplici e zoomate veloci. Le chitarre di Carlo riassumono l’internazionalità del sound regalando al brano uno spazio che non ha confini. Le dita rincorrono le corde sparigliandone le certezze, i limiti s’aggrappano al cielo evitando d’esser travolti e la voce sa di potersi fidare ancora, ancora e ancora, in quel suo genuflettersi alla vita che ama d’amore.
Sanno di danza, le evacuazioni del cuore che partono dalle evoluzioni di “Ragazze delle canzoni”, dove il banjo la fa da padrone e da servitore nel mettere in atto le sue mosse di tempo e d’ambiente in cui un testo prezioso del poeta Pasquale Panella dimensiona il senso della bellezza nella purezza di un sorso d’acqua bevuto a giumella. Gli archi e la voce si tingono di rosso-rubino e marrone-terra nell’affrontare un percorso vertiginoso e lucente che sale ritmicamente perfetto, fino alla cima più alta, del monte più alto.
Se “Fiore bel fiore” partecipasse ad una fiaba potrebbe essere la più bella del reame, tanto è assente da cattiveria e tant’è che il canto diventa libero di cantare e far cantare chitarre diverse nel suono e nella voglia, nella realtà e nell’immaginario delle voci di Laura e Angelina che diventano, anch’esse, respiro potente nel colorare dei giorni in arrivo.
La voce bellissima della Sardegna mi arriva come un galoppo nel cuore, da Maria Giovanna Cherchi, voce intessuta d’acciaio e meringa, con cui ho cercato di esplorare un mondo assolutamente nuovo nell’adattamento di un brano simbolo della cultura sarda, “Non potho reposare”. Qui il brano antico, da noi, viene completamente ricomposto e modificato nel portamento e nelle modulazioni che ne fanno un racconto emozionalmente prezioso nel suo aprirsi continuo al rinnovativo fulgore.
Non smetterò mai di ringraziare Fabrizio De Andrè per avermi suggerito, in un breve sogno, di cantare “Amore che vieni amore che vai”. Questa canzone credo appartenga a uno dei suoi momenti più alti, più significativi, quelli suoi, per farla breve; quelli in cui l’amore non faceva necessariamente rima con cuore, ma ricuciva la vita riaprendo le porte ossidate dei sensi d’appartenenza e di fuga, donando al vento ferito la possibilità di soffiare ancora sulle incertezze e le speranze di un mondo interiore presente e fascinoso come una vita.
Una vita è ciò che voglio cantare e in ogni nuovo lavoro c’è l’odore delle porte che voglio spalancare nelle mie stanze d’amore, perché le mie stanze d’amore hanno sete di spazio, hanno voglie aggiuntive da catturare.
Ed eccola “One” spalancarsi nelle mie stanze come sentimento e come tale capace di dissetarmi. Cantare un sentimento significa chiudere gli occhi e alzare lo sguardo del cuore e della gola verso il cielo dove ogni nota riprende senso donando un brivido imprevisto. Che meraviglia avere la possibilità di cantare un brivido, un luccichio appartenente all’anima ti si conficca sotto pelle e la trasmissione adrenalinica è tale da raccontare alla vita che sei felice.
Quanto stupore nella felicità, quanta sensibilità nello stupore, quanto rispetto nella sensibilità, quanto eroico rispetto in una delle canzoni più degne di ricevere un canto, “Heroes” di David Bowie. In un brano di tale levatura io leggo la bellezza del cosmo che si misura con l’integrità culturale dell’uomo, leggo la storia dell’intimità nella leggerezza dei movimenti, la passione che diventa virtù negli archi disegnati con attento criterio da un Rocco Petruzzi compreso tra la magia dell’irrazionalità e le colpe del razionale. Un arrangiamento segnato dalla vertigine di colori in caduta libera e chitarre scolpite su marmi pregiati d’azzurro e carta vocale come un acuto di fuoco.
Di notte i sogni s’addormentano e circondano la solitudine di nuovi silenzi in cui “L’immenso” ridimensiona il suo stato diventando lievito, lievito di canzone, in quel suo camuffare la vita con un amore, un amore crescente fino a diventare pane del cuore, fino a frantumare i suoi limiti, tanto da abbracciare il cielo e spremerne gocce di suono prezioso. Quel suono prezioso di cui non potrei non innamorarmi altrimenti farei peccato. Mi sarebbe piaciuto scrivere questa canzone di Amedeo Minghi.
Come faccio a definire cover un brano cantato con mia figlia Angelina? E in cui ha suonato la batteria mio figlio Filippo? Voi ci riuscireste? Io no!
Si tratta di “Get Back”, fantastico brano dei Beatles. Qui la ritmica di Filippo diventa un treno in corsa, un cavallo Appaloosa libero nella sua prateria. E’ la forza di un diciottenne che si distribuisce uniformemente nello scontro, frontalmente delicatissimo, tra la vocalità robusta e potente di un uomo maturo e quella di Angelina, dodicenne di carattere, forte di un giovane istinto, capace di melismi complessi e mai invadenti, di velluti timbrici profondi come un affetto e titanici come il significato di un altare. Ascoltando Filippo suonare e Angelina cantare in questa canzone si capisce facilmente che la musica è un firmamento che ti accoglie fin dalla nascita e ti benedice e sorride con tutte le stelle di cui è capace. Evviva! Questo non è solamente il giudizio di un padre, o quello di un artista, preferisco pensare che sia il giudizio di un uomo che necessita d’apprezzare un fatto artistico per quello che è, senza pensare da dove esso arrivi e quale sia il suo punto di partenza. Quello che conta è sentire inumidirsi gli occhi pur tenendoli chiusi.
“Una giornata uggiosa”! Per questa canzone io, Rocco e Carlo avevamo chiesto alla libertà di darci una mano ed essa, dopo aver squarciato il cielo, tanto tuonò che piovve su noi bellezza, cultura e amore calmo nell’affrontare, con un arrangiamento complesso e viscerale, un brano tra i più interessanti di Lucio Battisti con un testo di Mogol veramente di pregio. Ecco, anche in questa nostra realizzazione vorrei far notare la magia delle chitarre e degli archi che si mescolano in un vertiginoso commuoversi su ritmiche articolate guardanti lontano, lontano.
E da lontano, lontano arriva anche il senso che siamo andati a scoperchiare con “A me me piace ‘o Blues”. Sì, è Napoli che parla, ma è anche il Mississippi che ascolta. E’ la Napoli dei primi del ‘900, delle migliaia di fazzoletti bianchi che, pieni di lacrime, ogni giorno, dai bastimenti in partenza verso l’America, sventolavano un Addio piuttosto che un arrivederci. E’ la Napoli d’allora che tratteneva il respiro e aizzava sorrisi contro la fame per proteggersi dal tormento dei giorni appesi al muro della solitudine e dei vicoli della speranza. Ma è anche la Napoli di oggi, quella capace di risolvere i problemi contando sulla forza di volontà e sulla propria coscienza, quella dell’onestà e della crescita interiore, quella contro la delinquenza, quella in cui un mandolino ha valore solo se capace di dissetarsi alla fonte della cultura. Questa è la Napoli che ho cercato nel pezzo di Pino Daniele, quella della rinascita e della bellezza, quella di una lingua-dialetto che canta partendo dall’anima avendo come obiettivo il cuore.
Nel brano seguente, “Canzone” di Don Backy, le chitarre sostengono dialoghi elegantissimi con una natura proveniente dal blues mescolata ad uno spazio da colonna sonora, un po’ alla Morricone, per intenderci.
E’ un’urbana solitudine questa canzone, un abisso interiore capace di sfiorare il treno della speranza scaduta e riportarla in vita afferrandola per i capelli e farla volare come un ricordo.
Mi piace tanto il senso di questo senso, mi piace portarlo con me, come un’abitudine latentemente sconosciuta, ma vogliosa d’intromettersi nei miei vuoti d’umore, così come nei pieni, e farmi notare che nella vita le sensazioni possono essere positive o negative, dipende dal sogno che vogliamo sognare e che comunque le sensazioni sono rondini che hanno voglia di nidificare anche sulle ritmiche intense di questa canzone e sulle note umide di silenzio che essa contiene, quasi fossero rami di canto, rampicanti in cerca di sole.
Uno degli artisti più artisti del mondo, secondo me, è Sting. Grande musicista, grande autore, una voce che ha il colore dei campi di grano maturo e della foresta amazzonica; quelli della memoria e del tempo perduto; del Mantegna e della notte che insegue il giorno.
Per questo mio nuovo lavoro ho voluto un suo brano. Però, come ben sapete, io non vado tanto d’accordo con il concetto di cover, poichè per cover s’intende spesso il rifacimento dell’originale, per cui ho necessità di comprendere la volontà di quel brano di farsi spogliare per farsi osservare in tutta la sua bellezza, in ogni piccolo suo movimento, in ogni piccolo delicato scandire il tempo. Ho bisogno di capire in che modo io possa, poi, rivestire questa canzone guardandola da un’angolazione completamente diversa. E allora eccola “Fields of gold” diventare una vellutata di voci nella grande cucina dei sensi. Eccola formulare modulazioni nuove traversando un gioco di armonie che potrebbero sembrare complesse in un primo momento ma, ad un orecchio attento, arrivano, poi, come un amplesso di profumi tra giardini di petali distesi in sorriso uniforme, intorno ad un assolo hard di un Carlo De Bei da urlo. E allora la voce è veliero di sentimenti in tempesta, è foriera di emozioni che invadono il corpo per uscirne, poi, mantice di vento di Cornovaglia fluttuante tra un arrivo aspettato e la partenza improvvisa di un’emozione.
L’ultima canzone presa in esame è quella che dà il titolo all’album e che interpreta il pensiero mio di oggi e di sempre, “L’amore è invisibile”. Una canzone, non solo d’amore universale, ma anche un armadietto del cuore da aprire come un orgoglio e in cui riporre le coscienze del vivere senza paura, del vivere un armonico fuoritempo con le persone che amiamo. Una piccola distanza a conferma di tutto l’amore che conta davvero. L’amore è invisibile perché è come un dizionario senza parole scritte, contenente solo parole pensate. Un impalpabile intreccio d’affetto e destino nel teatro dell’essere senza avere. Ho voluto questa canzone perché mi rappresenta, che m’appartiene come il diario che non ho mai scritto. Questo è il sogno che ha voglia di sognare con me… è la vista dalla mia finestra, sì, questa è la vista dalla mia finestra.. tu sai bene cos’è….tu sai bene cos’è…tu sai bene cos’è.
Mango
L’amore è invisibile quando definisce ogni zona del cuore capace di protezione, quando è voglioso di sconfinate incertezze, quando sa come mortificarne il dolore nascosto che ne fuoriesce e cancellarne la scia luminosa che potrebbe raschiare il cielo come gesso sulla lavagna.
L’amore è invisibile quando si raccoglie in un’espressione vocale, felice di dare spazio alle parole di una canzone, quando esse diventano piantine di riso perfettamente distanti l’una dall’altra nel rispetto di quello spazio capace, ogni volta, di conquistarla la canzone, come fa un maschio con una femmina o una femmina col proprio maschio e di penetrare l’amplesso geometrico- viscerale tra il cuore e la testa dell’autore, area, questa, valicabile solo con la forza di una nuova passione, altrettanto fascinosa e intuitiva da permetterti di volare falco d’amore su quella nuova coscienza impalpabile quanto odorosa di nuovi respiri da catturare.
Un nuovo disco, però, non è un corteggiamento, ma un sondaggio del cuore sul cuore, uno stratagemma scomposto affinché ci sia data la possibilità di capire.
Non è un azzardo ma terra moderna su cui ogni semina può diventare obiettivo da distinguere e raffinare quasi fosse uno zucchero o un diamante da accarezzare per cercarne la luce più interna.
Un disco nuovo è un design che nasce perché il tempo lo concede.
Non è il caso a manovrare le cose, ma l’architettura dell’emozione, quella che muove dall’abitabilità necessaria ad una canzone per raccontare un pezzo di vita, come se fosse un’impalcatura su cui il corpo può muoversi, nel tentativo di rigenerare l’anima, intanto che, aggrappata al vento, s’asciuga.
Lavorando a un disco di cover l’architettura dell’emozione diventa il moltiplicatore dei sensi. Traversando il grado intuitivo tutto si trasforma in nuovo linguaggio, quello che ci permette di ristrutturare gli ambienti di ogni canzone analizzandone le distanze più intime per poi convogliarle verso uno stato sintonico- viscerale capace di reiterarne lo stato d’animo.
La possibilità di scegliere tra centinaia di forti emozioni già vissute da colleghi in altri momenti, apre il petto, ritemprando i colori fin dalle cantine del sogno, cercando altro profumo da regalare ai nuovi fiori del sentimento.
Rimodellare, partendo dalla propria visuale, una canzone, significa vivere un’emozione forte e violenta; significa ricomporre un mosaico armonico-emozionale utilizzando il seme della vocalità e del sound, rompendo ogni schematico pregiudizio musicale, dando spazio alla propria libertà mentale nell’affrontare il suono con una visceralità sorridente e positiva, propositiva di un attimo di vita, mai vissuto in precedenza. Quella che nasce e cresce dallo scambio di momenti simbiotici fondamentali con musicisti importanti come Carlo De Bei e Rocco Petruzzi, anime sempre nuove, specularmente preziose nel confronto continuo col mio trentennale bisogno di scoprire, volare, riempire, svuotare, anticipare, analizzare, amare, cantare, suonare, etc..etc.. il mondo musicale per quello che è, vale a dire, un mondo difficile e complesso, capace di universi non proprio facili da spiegare, ma possibili da vivere con umiltà parallela a una lacrima, quella lacrima incapace di annegare in una segreta malinconia, ma vogliosa di essere fiore del mondo.
Ricreare duttilità ad un linguaggio significa amplificare lo sguardo che è proprio dell’anima e allora lo sguardo è un volo a planare ed ecco che, il brano che stai analizzando ti penetra e diventa un viaggio sottopelle, disilluso e cocente di suono mai claustrofobico, ma intimistico rigenerativo.
Per una voce bisognosa di canto credo che la rilettura di un brano possa rappresentare il vertice di una possibilità, questo è quanto è capitato a me nel lavorare così intensamente su “L’amore è invisibile”. Una gioia immensa si è impossessata di me, durante il lungo periodo di lavorazione, regalandomi momenti di serenità delicate, dolcezze non trascurabili ed anche malinconiche circumnavigazioni del cuore unite a virili accortezze dell’anima, cosciente a volte, ma anche sorpresa e non accorta in altre.
E allora l’incontro con “Scrivimi”diventa quasi un obbligatorio punto di sensibilità che vive d’amore. Un accertato sistema che si raccoglie nell’intimo del proprio viaggio, dove l’abbandonarsi poetico, su un BPM diverso, regala alla vocalità un nuovo volo fatto di ali semplici e zoomate veloci. Le chitarre di Carlo riassumono l’internazionalità del sound regalando al brano uno spazio che non ha confini. Le dita rincorrono le corde sparigliandone le certezze, i limiti s’aggrappano al cielo evitando d’esser travolti e la voce sa di potersi fidare ancora, ancora e ancora, in quel suo genuflettersi alla vita che ama d’amore.
Sanno di danza, le evacuazioni del cuore che partono dalle evoluzioni di “Ragazze delle canzoni”, dove il banjo la fa da padrone e da servitore nel mettere in atto le sue mosse di tempo e d’ambiente in cui un testo prezioso del poeta Pasquale Panella dimensiona il senso della bellezza nella purezza di un sorso d’acqua bevuto a giumella. Gli archi e la voce si tingono di rosso-rubino e marrone-terra nell’affrontare un percorso vertiginoso e lucente che sale ritmicamente perfetto, fino alla cima più alta, del monte più alto.
Se “Fiore bel fiore” partecipasse ad una fiaba potrebbe essere la più bella del reame, tanto è assente da cattiveria e tant’è che il canto diventa libero di cantare e far cantare chitarre diverse nel suono e nella voglia, nella realtà e nell’immaginario delle voci di Laura e Angelina che diventano, anch’esse, respiro potente nel colorare dei giorni in arrivo.
La voce bellissima della Sardegna mi arriva come un galoppo nel cuore, da Maria Giovanna Cherchi, voce intessuta d’acciaio e meringa, con cui ho cercato di esplorare un mondo assolutamente nuovo nell’adattamento di un brano simbolo della cultura sarda, “Non potho reposare”. Qui il brano antico, da noi, viene completamente ricomposto e modificato nel portamento e nelle modulazioni che ne fanno un racconto emozionalmente prezioso nel suo aprirsi continuo al rinnovativo fulgore.
Non smetterò mai di ringraziare Fabrizio De Andrè per avermi suggerito, in un breve sogno, di cantare “Amore che vieni amore che vai”. Questa canzone credo appartenga a uno dei suoi momenti più alti, più significativi, quelli suoi, per farla breve; quelli in cui l’amore non faceva necessariamente rima con cuore, ma ricuciva la vita riaprendo le porte ossidate dei sensi d’appartenenza e di fuga, donando al vento ferito la possibilità di soffiare ancora sulle incertezze e le speranze di un mondo interiore presente e fascinoso come una vita.
Una vita è ciò che voglio cantare e in ogni nuovo lavoro c’è l’odore delle porte che voglio spalancare nelle mie stanze d’amore, perché le mie stanze d’amore hanno sete di spazio, hanno voglie aggiuntive da catturare.
Ed eccola “One” spalancarsi nelle mie stanze come sentimento e come tale capace di dissetarmi. Cantare un sentimento significa chiudere gli occhi e alzare lo sguardo del cuore e della gola verso il cielo dove ogni nota riprende senso donando un brivido imprevisto. Che meraviglia avere la possibilità di cantare un brivido, un luccichio appartenente all’anima ti si conficca sotto pelle e la trasmissione adrenalinica è tale da raccontare alla vita che sei felice.
Quanto stupore nella felicità, quanta sensibilità nello stupore, quanto rispetto nella sensibilità, quanto eroico rispetto in una delle canzoni più degne di ricevere un canto, “Heroes” di David Bowie. In un brano di tale levatura io leggo la bellezza del cosmo che si misura con l’integrità culturale dell’uomo, leggo la storia dell’intimità nella leggerezza dei movimenti, la passione che diventa virtù negli archi disegnati con attento criterio da un Rocco Petruzzi compreso tra la magia dell’irrazionalità e le colpe del razionale. Un arrangiamento segnato dalla vertigine di colori in caduta libera e chitarre scolpite su marmi pregiati d’azzurro e carta vocale come un acuto di fuoco.
Di notte i sogni s’addormentano e circondano la solitudine di nuovi silenzi in cui “L’immenso” ridimensiona il suo stato diventando lievito, lievito di canzone, in quel suo camuffare la vita con un amore, un amore crescente fino a diventare pane del cuore, fino a frantumare i suoi limiti, tanto da abbracciare il cielo e spremerne gocce di suono prezioso. Quel suono prezioso di cui non potrei non innamorarmi altrimenti farei peccato. Mi sarebbe piaciuto scrivere questa canzone di Amedeo Minghi.
Come faccio a definire cover un brano cantato con mia figlia Angelina? E in cui ha suonato la batteria mio figlio Filippo? Voi ci riuscireste? Io no!
Si tratta di “Get Back”, fantastico brano dei Beatles. Qui la ritmica di Filippo diventa un treno in corsa, un cavallo Appaloosa libero nella sua prateria. E’ la forza di un diciottenne che si distribuisce uniformemente nello scontro, frontalmente delicatissimo, tra la vocalità robusta e potente di un uomo maturo e quella di Angelina, dodicenne di carattere, forte di un giovane istinto, capace di melismi complessi e mai invadenti, di velluti timbrici profondi come un affetto e titanici come il significato di un altare. Ascoltando Filippo suonare e Angelina cantare in questa canzone si capisce facilmente che la musica è un firmamento che ti accoglie fin dalla nascita e ti benedice e sorride con tutte le stelle di cui è capace. Evviva! Questo non è solamente il giudizio di un padre, o quello di un artista, preferisco pensare che sia il giudizio di un uomo che necessita d’apprezzare un fatto artistico per quello che è, senza pensare da dove esso arrivi e quale sia il suo punto di partenza. Quello che conta è sentire inumidirsi gli occhi pur tenendoli chiusi.
“Una giornata uggiosa”! Per questa canzone io, Rocco e Carlo avevamo chiesto alla libertà di darci una mano ed essa, dopo aver squarciato il cielo, tanto tuonò che piovve su noi bellezza, cultura e amore calmo nell’affrontare, con un arrangiamento complesso e viscerale, un brano tra i più interessanti di Lucio Battisti con un testo di Mogol veramente di pregio. Ecco, anche in questa nostra realizzazione vorrei far notare la magia delle chitarre e degli archi che si mescolano in un vertiginoso commuoversi su ritmiche articolate guardanti lontano, lontano.
E da lontano, lontano arriva anche il senso che siamo andati a scoperchiare con “A me me piace ‘o Blues”. Sì, è Napoli che parla, ma è anche il Mississippi che ascolta. E’ la Napoli dei primi del ‘900, delle migliaia di fazzoletti bianchi che, pieni di lacrime, ogni giorno, dai bastimenti in partenza verso l’America, sventolavano un Addio piuttosto che un arrivederci. E’ la Napoli d’allora che tratteneva il respiro e aizzava sorrisi contro la fame per proteggersi dal tormento dei giorni appesi al muro della solitudine e dei vicoli della speranza. Ma è anche la Napoli di oggi, quella capace di risolvere i problemi contando sulla forza di volontà e sulla propria coscienza, quella dell’onestà e della crescita interiore, quella contro la delinquenza, quella in cui un mandolino ha valore solo se capace di dissetarsi alla fonte della cultura. Questa è la Napoli che ho cercato nel pezzo di Pino Daniele, quella della rinascita e della bellezza, quella di una lingua-dialetto che canta partendo dall’anima avendo come obiettivo il cuore.
Nel brano seguente, “Canzone” di Don Backy, le chitarre sostengono dialoghi elegantissimi con una natura proveniente dal blues mescolata ad uno spazio da colonna sonora, un po’ alla Morricone, per intenderci.
E’ un’urbana solitudine questa canzone, un abisso interiore capace di sfiorare il treno della speranza scaduta e riportarla in vita afferrandola per i capelli e farla volare come un ricordo.
Mi piace tanto il senso di questo senso, mi piace portarlo con me, come un’abitudine latentemente sconosciuta, ma vogliosa d’intromettersi nei miei vuoti d’umore, così come nei pieni, e farmi notare che nella vita le sensazioni possono essere positive o negative, dipende dal sogno che vogliamo sognare e che comunque le sensazioni sono rondini che hanno voglia di nidificare anche sulle ritmiche intense di questa canzone e sulle note umide di silenzio che essa contiene, quasi fossero rami di canto, rampicanti in cerca di sole.
Uno degli artisti più artisti del mondo, secondo me, è Sting. Grande musicista, grande autore, una voce che ha il colore dei campi di grano maturo e della foresta amazzonica; quelli della memoria e del tempo perduto; del Mantegna e della notte che insegue il giorno.
Per questo mio nuovo lavoro ho voluto un suo brano. Però, come ben sapete, io non vado tanto d’accordo con il concetto di cover, poichè per cover s’intende spesso il rifacimento dell’originale, per cui ho necessità di comprendere la volontà di quel brano di farsi spogliare per farsi osservare in tutta la sua bellezza, in ogni piccolo suo movimento, in ogni piccolo delicato scandire il tempo. Ho bisogno di capire in che modo io possa, poi, rivestire questa canzone guardandola da un’angolazione completamente diversa. E allora eccola “Fields of gold” diventare una vellutata di voci nella grande cucina dei sensi. Eccola formulare modulazioni nuove traversando un gioco di armonie che potrebbero sembrare complesse in un primo momento ma, ad un orecchio attento, arrivano, poi, come un amplesso di profumi tra giardini di petali distesi in sorriso uniforme, intorno ad un assolo hard di un Carlo De Bei da urlo. E allora la voce è veliero di sentimenti in tempesta, è foriera di emozioni che invadono il corpo per uscirne, poi, mantice di vento di Cornovaglia fluttuante tra un arrivo aspettato e la partenza improvvisa di un’emozione.
L’ultima canzone presa in esame è quella che dà il titolo all’album e che interpreta il pensiero mio di oggi e di sempre, “L’amore è invisibile”. Una canzone, non solo d’amore universale, ma anche un armadietto del cuore da aprire come un orgoglio e in cui riporre le coscienze del vivere senza paura, del vivere un armonico fuoritempo con le persone che amiamo. Una piccola distanza a conferma di tutto l’amore che conta davvero. L’amore è invisibile perché è come un dizionario senza parole scritte, contenente solo parole pensate. Un impalpabile intreccio d’affetto e destino nel teatro dell’essere senza avere. Ho voluto questa canzone perché mi rappresenta, che m’appartiene come il diario che non ho mai scritto. Questo è il sogno che ha voglia di sognare con me… è la vista dalla mia finestra, sì, questa è la vista dalla mia finestra.. tu sai bene cos’è….tu sai bene cos’è…tu sai bene cos’è.
Mango