Esiste un vuoto da cui è difficile partire e in cui è facile arrivare. Un vuoto capace di fermare
i numeri per farli navigare sospesi nell’aria di un affetto e dar loro una progressione diversa, più matura,
più responsabile, più vicina alla coscienza che la notte possiede quando dall’alto guarda il giorno che viene.
Un vuoto possente nel suo macinare il pensiero deluso ed informe, oppure sapiente nel tessere trame
d’orgoglio e di perfezione coerente. Un vuoto di perdizione e di sguardi, di rivoluzioni e contrasti
affamati di malinconiche iperboli nel nostro cercare terreno. Nel nostro saper chiedere terra
al destino dell’essere veri e sani viaggiatori, aggrappati ognuno al filo del proprio oblio e del proprio rifugio,
ognuno al filo del proprio aquilone fatto di carta leggera e sognante, di carta color vita, di color infinito o
colore del vento su cui salire ogni volta che la legge del bene e del male ci rende consapevoli attori delle nostre commedie interiori. Quella terra degli aquiloni che ci vede co-autori dei problemi del cuore e delle edizioni circostanti. Quella terra in cui gli aquiloni sanno volare più in alto dell’anima dando al destino un sorriso più facile da guidare o quella terra in cui gli aquiloni volano sotto le nuvole fino a confondersi con esse per masticarne le forme e tramutarle in pioggia, quella da bere in un sorso di sogno fatto di pensieri e dignità coraggiose.
Ed eccomi qui con voi, amici d’emozione e di equilibrio, a partorire una sete nuova da soddisfare
avvicinandomi al vostro pudore proprio con quel sorso di sogno fatto di pensieri e dignità coraggiose;
di umiltà e di velieri su cui soffiare con forza per portarvi con mano nella sconfinata interiorità di
“ La terra degli aquiloni “. Una terra in cui il sentimento ci osserva con poca attenzione dai balconi della vita
e ci indica frettolosamente i percorsi, in bianco e nero, come in un film muto, a cui dare colore e parola,
come se i pensieri avessero un codice di partenza e le esperienze puntassero il loro dito verso obiettività annebbiate.
Ma io la voglio questa terra e voglio aggrapparmi ad ogni filo che dovesse passare sulla mia testa, affinché io stesso possa condurre ogni aquilone del mio carattere nel punto in cui tutti i caratteri del mondo si riuniscono per decidere ognuno del proprio destino.
Un brano, questo, composto da piccole isole musicali, comunicanti tra loro con piccoli battelli di cori e chitarre
capaci di maturare il suono a tal punto da farlo diventare ritmicamente possente e gravido di un’emozione inversa alla percezione iniziale.
Certo che descrivere un nuovo lavoro discografico è per me come fare un viaggio in una città che conosco bene
ma della quale ho bisogno di scoprire, ancora, gli anfratti, i vicoli meno illuminati, quei luoghi che tentano di nascondersi ai pensieri ma non alle fantasie che nascono da quel saper guardare e sentire che più ci assomiglia,
proprio come ne “ La sposa “, dove i colori a tempera di Pasquale Panella danno spazio al mio foglio e ne fanno afflato di “sangue e d’arena” in cui riuscire a chiudere, come in un pugno chiuso, quegli orizzonti che spesso
si attaccano al cielo, attraverso le cime delle montagne, per sottolineare un respiro più grande alla notte.
Subito dopo le chitarre di Carlo De Bei diventano forza motrice di “ Dignitose arrendevolezze “.
Una forza sonora indeformabile quella di Carlo, su cui le parole e la voce hanno voglia di descrivere
la capacità nostra nel saper osservare la vita come se fosse un anticipo di felicità, dove la forza e
la tempra delle persone in amore riesce a battezzare l’augurio più sano e prezioso che il vento ci possa portare.
Il regalo di un amore mi piace allargarlo su “ Guarda l’Italia che bella “, un pezzo capace di emozionarmi
anche quando non ne ho voglia e lo stesso ho bisogno di dire su “ Dove ti perdo “un altro brano con dentro una sensibilità che mi prende di petto e mi toglie il respiro. Sensibilità portata quasi per mano da un magnifico
Rocco Petruzzi che, con gli archi, ha saputo sfiorare la voce lasciandone intatto il sapore di romanzo d’amore.
Queste due canzoni mi hanno garantito l’esistenza di un programma che in noi prende forma nel dare senso alle piccole storie che danno fiato al nostro universo.
Lo voglio per me questo fiato e lo voglio per tutte le persone che amo, che ho amato e che amerò
come un futuro certo, sensibile al mio raccontare di noi.
Così, in “ Chiamo le cose “, voglio raccontare delle cose che chiamo e che sento che mi chiamano,
come se fossero il mio sguardo più leggero o quello più inquieto, o forse, come se facessero parte di un addio,
di cui presentarne il saluto più cauto e carnale. E qui, le chitarre e gli archi, inseguiti dai cori,
percepiscono il presente come una celebrazione della natura.
Musicalmente tutti questi brani hanno, secondo me, una carnalità passionale e vogliosa di sensi in movimento,
in armonia con gli aquiloni del cuore , quelli che non conoscono interruzioni ma solo crescita emozionale,
proprio come un amplesso maturo del suo desiderio. E quale momento migliore, se non “ Tutto, tutto “ per dare sfogo a questa carnalità passionale e vogliosa di sensi in movimento, brano, questo, che necessita del movimento del corpo per esprimerne la sensualità della vita, mettendone in luce il passionale sudore.
“ Volver “, bellissimo brano di Gardel, che ho voluto inserire in questo disco dopo aver visto il film di Almodovar
in cui la straordinaria Penelope Cruz ne eseguiva uno splendido playback.
Non ho voluto parlare più di canzone, in questo caso, ma di rappresentazione del suono come invenzione del corpo. Invenzione che assume l’aspetto della vocalità mia e delle dita di Flavio Sala, grande chitarrista classico e ne combina i colori più sconosciuti in un viaggio tzigano-andaluso.
E il viaggio continua salendo sulla ferrovia della terra e dell’anima con “ Starlight “in cui la gioia del suonare insieme
si amplifica ascoltando, in jam session, mio figlio Filippo, 16 anni, alla batteria e ai cori Laura e Angelina, 10 anni.
E’ come se il cuore si fermasse per pochi secondi prima di riprendere vita e assecondare la mente.
“ Mi sono fatto forza per coltivare un fiore in mezzo a tanta sabbia nel deserto,
è tutto quanto incerto, incerto e provvisorio, non è consolatorio ma è così.
Non resta che il rifugio in fondo al cuore “.
Grazie a Maurizio Fabrizio e Guido Morra per questo pezzo incredibile.
Grazie a tutti gli amici che hanno avuto voglia di suonare con me: Carlo, Rocco, Pasquale, Nello,
Giancarlo, Paolo, Laura, Angelina e Filippo.
Voglio sposarlo questo disco.
Ne voglio consumare le parti più intime e chiedere al vento se ha voglia di morire come quel
“ Pazzo “ in fondo al cuore.
i numeri per farli navigare sospesi nell’aria di un affetto e dar loro una progressione diversa, più matura,
più responsabile, più vicina alla coscienza che la notte possiede quando dall’alto guarda il giorno che viene.
Un vuoto possente nel suo macinare il pensiero deluso ed informe, oppure sapiente nel tessere trame
d’orgoglio e di perfezione coerente. Un vuoto di perdizione e di sguardi, di rivoluzioni e contrasti
affamati di malinconiche iperboli nel nostro cercare terreno. Nel nostro saper chiedere terra
al destino dell’essere veri e sani viaggiatori, aggrappati ognuno al filo del proprio oblio e del proprio rifugio,
ognuno al filo del proprio aquilone fatto di carta leggera e sognante, di carta color vita, di color infinito o
colore del vento su cui salire ogni volta che la legge del bene e del male ci rende consapevoli attori delle nostre commedie interiori. Quella terra degli aquiloni che ci vede co-autori dei problemi del cuore e delle edizioni circostanti. Quella terra in cui gli aquiloni sanno volare più in alto dell’anima dando al destino un sorriso più facile da guidare o quella terra in cui gli aquiloni volano sotto le nuvole fino a confondersi con esse per masticarne le forme e tramutarle in pioggia, quella da bere in un sorso di sogno fatto di pensieri e dignità coraggiose.
Ed eccomi qui con voi, amici d’emozione e di equilibrio, a partorire una sete nuova da soddisfare
avvicinandomi al vostro pudore proprio con quel sorso di sogno fatto di pensieri e dignità coraggiose;
di umiltà e di velieri su cui soffiare con forza per portarvi con mano nella sconfinata interiorità di
“ La terra degli aquiloni “. Una terra in cui il sentimento ci osserva con poca attenzione dai balconi della vita
e ci indica frettolosamente i percorsi, in bianco e nero, come in un film muto, a cui dare colore e parola,
come se i pensieri avessero un codice di partenza e le esperienze puntassero il loro dito verso obiettività annebbiate.
Ma io la voglio questa terra e voglio aggrapparmi ad ogni filo che dovesse passare sulla mia testa, affinché io stesso possa condurre ogni aquilone del mio carattere nel punto in cui tutti i caratteri del mondo si riuniscono per decidere ognuno del proprio destino.
Un brano, questo, composto da piccole isole musicali, comunicanti tra loro con piccoli battelli di cori e chitarre
capaci di maturare il suono a tal punto da farlo diventare ritmicamente possente e gravido di un’emozione inversa alla percezione iniziale.
Certo che descrivere un nuovo lavoro discografico è per me come fare un viaggio in una città che conosco bene
ma della quale ho bisogno di scoprire, ancora, gli anfratti, i vicoli meno illuminati, quei luoghi che tentano di nascondersi ai pensieri ma non alle fantasie che nascono da quel saper guardare e sentire che più ci assomiglia,
proprio come ne “ La sposa “, dove i colori a tempera di Pasquale Panella danno spazio al mio foglio e ne fanno afflato di “sangue e d’arena” in cui riuscire a chiudere, come in un pugno chiuso, quegli orizzonti che spesso
si attaccano al cielo, attraverso le cime delle montagne, per sottolineare un respiro più grande alla notte.
Subito dopo le chitarre di Carlo De Bei diventano forza motrice di “ Dignitose arrendevolezze “.
Una forza sonora indeformabile quella di Carlo, su cui le parole e la voce hanno voglia di descrivere
la capacità nostra nel saper osservare la vita come se fosse un anticipo di felicità, dove la forza e
la tempra delle persone in amore riesce a battezzare l’augurio più sano e prezioso che il vento ci possa portare.
Il regalo di un amore mi piace allargarlo su “ Guarda l’Italia che bella “, un pezzo capace di emozionarmi
anche quando non ne ho voglia e lo stesso ho bisogno di dire su “ Dove ti perdo “un altro brano con dentro una sensibilità che mi prende di petto e mi toglie il respiro. Sensibilità portata quasi per mano da un magnifico
Rocco Petruzzi che, con gli archi, ha saputo sfiorare la voce lasciandone intatto il sapore di romanzo d’amore.
Queste due canzoni mi hanno garantito l’esistenza di un programma che in noi prende forma nel dare senso alle piccole storie che danno fiato al nostro universo.
Lo voglio per me questo fiato e lo voglio per tutte le persone che amo, che ho amato e che amerò
come un futuro certo, sensibile al mio raccontare di noi.
Così, in “ Chiamo le cose “, voglio raccontare delle cose che chiamo e che sento che mi chiamano,
come se fossero il mio sguardo più leggero o quello più inquieto, o forse, come se facessero parte di un addio,
di cui presentarne il saluto più cauto e carnale. E qui, le chitarre e gli archi, inseguiti dai cori,
percepiscono il presente come una celebrazione della natura.
Musicalmente tutti questi brani hanno, secondo me, una carnalità passionale e vogliosa di sensi in movimento,
in armonia con gli aquiloni del cuore , quelli che non conoscono interruzioni ma solo crescita emozionale,
proprio come un amplesso maturo del suo desiderio. E quale momento migliore, se non “ Tutto, tutto “ per dare sfogo a questa carnalità passionale e vogliosa di sensi in movimento, brano, questo, che necessita del movimento del corpo per esprimerne la sensualità della vita, mettendone in luce il passionale sudore.
“ Volver “, bellissimo brano di Gardel, che ho voluto inserire in questo disco dopo aver visto il film di Almodovar
in cui la straordinaria Penelope Cruz ne eseguiva uno splendido playback.
Non ho voluto parlare più di canzone, in questo caso, ma di rappresentazione del suono come invenzione del corpo. Invenzione che assume l’aspetto della vocalità mia e delle dita di Flavio Sala, grande chitarrista classico e ne combina i colori più sconosciuti in un viaggio tzigano-andaluso.
E il viaggio continua salendo sulla ferrovia della terra e dell’anima con “ Starlight “in cui la gioia del suonare insieme
si amplifica ascoltando, in jam session, mio figlio Filippo, 16 anni, alla batteria e ai cori Laura e Angelina, 10 anni.
E’ come se il cuore si fermasse per pochi secondi prima di riprendere vita e assecondare la mente.
“ Mi sono fatto forza per coltivare un fiore in mezzo a tanta sabbia nel deserto,
è tutto quanto incerto, incerto e provvisorio, non è consolatorio ma è così.
Non resta che il rifugio in fondo al cuore “.
Grazie a Maurizio Fabrizio e Guido Morra per questo pezzo incredibile.
Grazie a tutti gli amici che hanno avuto voglia di suonare con me: Carlo, Rocco, Pasquale, Nello,
Giancarlo, Paolo, Laura, Angelina e Filippo.
Voglio sposarlo questo disco.
Ne voglio consumare le parti più intime e chiedere al vento se ha voglia di morire come quel
“ Pazzo “ in fondo al cuore.